Cominciai veramente a capire da dove nasce la violenza, solo dopo aver letto il bellissimo libro di Anna Harendt, “La banalità del male”. Per la prima volta la Harendt attribuiva la furia genocida nazista non più tanto all’indole maligna, quanto invece a un aspetto ancora più inquietante: la completa inconsapevolezza dei danni che le proprie azioni possono provocare negli altri.
Adolf Eichman era un individuo assolutamente privo di moralità, non aveva alcuna idea personale e si confaceva a quelle degli altri, così, al momento, per pura convenienza. Privo di cultura, aveva aderito al nazismo solo perché come da opinione diffusa la Germania era stata penalizzata dagli accordi di Versailles. Viveva senza una reale prospettiva, senza spirito di iniziativa, senza identità. Una scatola vuota da riempire all’occorrenza, con frasi fatte, solo per il puro gusto di compiacere e soprattutto auto-compiacersi. Si attribuiva meriti non suoi, viveva di inerzia altrui, in tutto e per tutto era un mediocre. Assorbiva ciò che aveva intorno, non tanto per fare qualcosa (visto che non ne comprendeva il perché), quanto per vantarsi di averla fatta.
A renderlo pericoloso era proprio la sua vuotezza che lo faceva apparire “normale”, ma esserne consapevole gli rendeva insopportabili i suoi limiti: questo lo portava ad attribuire agli altri le cause della propria infelicità.
In sede processuale, Eichman attribuì la colpa dei suoi efferati crimini alla “Ragion di Stato”, un’entità “superiore” sulla quale pensava di poter scaricare le nefandezze del suo mostro interiore, mostro del quale amava alimentarsi e del quale non è riuscito mai a fare a meno.
Fu processato in Israele e condannato a morte per crimini contro l'umanità.
Adolf Eichman è sicuramente un esempio storico del vizio capitale della SUPERBIA.
Nel suo più famoso romanzo, “L’Avversario”, Emmanuel Carrère ha dipinto i tratti di uno dei più efferati criminali della storia: il belga Jean Claude Romand. Romand conduceva una vita apparentemente normale, peccato che nulla di ciò che facesse fosse reale, ma solo il frutto della proiezione che aveva di sé stesso, una proiezione che lo faceva apparire migliore di quello che era, come lui voleva che gli altri lo vedessero. Così, incapace di superare l’esame di ammissione al secondo anno di medicina all’università, cominciò a fingere di essere un medico ricercatore dell’OMS e mantenne il suo elevato stile di vita e quello della sua famiglia con il denaro che si faceva prestare dagli stessi familiari promettendo di investirlo o altre volte inscenando di avere un linfoma. Ogni giorno si recava presso l’ospedale della sua città fingendo appunto di lavorarci, ma in realtà trascorrendo l’intero tempo in biblioteca. Tornava a casa, recitava la parte e ricominciava, così ogni santo giorno. Quando portava in vacanza la sua famiglia, spendeva soldi dei suoi parenti ai quali prometteva lauti guadagni sempre su investimenti inesistenti e così facendo arrivò ad accumulare debiti per circa 2.000.000 di franchi. Quando la sua doppia vita, mostruosamente gestita in parallelo fino ad allora, venne finalmente scoperta dai suoi parenti, Romand acquistò un fucile, pugnalò a morte la moglie, sparò e uccise i suoi genitori e i suoi figli e dopo aver tentato di strangolare l’amante, finse un suicidio ingerendo barbiturici e dando fuoco alla sua abitazione. Dopo 26 anni di carcere, da poco più di un anno è in libertà vigilata e lo sarà per altri 10.
Jean Claude Romand è sicuramente un classico esempio del vizio capitale dell’ACCIDIA.
Mary Cotton Ann, vissuta nella metà del XIX° secolo, manifestò disagi relazionali sin dai primi tempi della scuola. 7 dei suoi primi 8 figli morirono in tenera età, 4 di essi per febbre gastrica. Il primo marito, William Mowbray, morì per malattia intestinale dopo avere intestato un’assicurazione sulla vita a Mary Ann che intascò così un’eredità di 38 £. Il secondo marito, Georges Ward morì anch’egli per problemi intestinali, sempre dopo aver riconosciuto Mary Ann beneficiaria di un’assicurazione sulla vita.
Il terzo marito, James Robinson, sospettando della morte dei suoi due figli con Mary Ann e notando le insistenze della donna a farle intestare l’assicurazione sulla vita, cominciò a controllare i suoi strani comportamenti e scoprì che la moglie aveva contratto debiti per 60 £, ne aveva rubate più di 50 e aveva impegnato diversi suoi oggetti di valore, così la cacciò di casa.
Intrufolatasi nella casa del vedovo Frederick Cotton, con la scusa di aiutare sua sorella Margaret a badare ai due figli di Frederick, anche Margaret morì di malattia allo stomaco e Mary Ann, ancora sposata con James Robinson, ebbe un figlio con Frederick, Robert, il quale morì dopo un solo anno di vita. Intanto Mary Ann riprese la relazione con un suo vecchio amante, Joseph Natrass, mentre anche Frederick, dopo aver sottoscritto un’assicurazione sulla vita a favore di Mary Ann, morì di febbre gastrica. Stessa fine per Natrass, sempre dopo aver firmato la polizza a vita in favore di Mary Ann che intanto aveva preso anche il cognome del quarto marito, Cotton.
La svolta si ebbe quando il parroco Thomas Riley chiese alla pluriomicida di assistere alcune infermiere, ma lei rispose che doveva assistere l’altro figlio di Frederick, Edward, il quale però morì poco dopo. Quando il parroco denunciò la strana morte di Edward alla polizia, la “vedova nera” accusò il parroco di averlo fatto solo perché lei aveva respinto le sue avances.
Depravata, bugiarda patologica, truffatrice seriale e spietata assassina, Mary Ann fu impiccata nella prigione della contea di Durhan il 24 marzo 1873. Il boia utilizzò per l'esecuzione la tecnica detta della "piccola caduta" che provocava la morte non per la rottura delle vertebre del collo ma per il lento soffocamento. Il movente più attendibile nel suo caso fù il fattore economico, “giustificato” da una sorta di esigenza di autonomia dalla figura maschile che in altro modo la pluriomicida non riusciva a raggiungere. Molti però sostennero che in realtà uccidesse per noia. Posto che nessuna delle due ipotesi è da escludere, alla Ann possiamo attribuire in prevalenza il vizio capitale dell’AVARIZIA.
Per ultimo ma non ultimo, come si suol dire, il più “vicino” a noi salentini, Antonio De Marco.
La scelta di un bersaglio facile, la sfida agli inquirenti, l’aspettativa di una escalation futura in cui esibirsi ancora meglio. Nella mente di questo giovane serial killer c’è solo il gusto di ambire a soddisfazioni sempre più grandi, di vendetta e rivalsa, per soddisfare la propria invidia disumana contro gli altri. La molla che fa scattare la sua furia omicida è il mancato appagamento della propria esistenza rapportata a quella di Daniele ed Eleonora, un rancore accumulato nel tempo, per qualcosa che reputava irraggiungibile, un qualcosa che era troppo bello per lui e pertanto inaccettabile: questa bellezza per lui irraggiungibile doveva morire. Così Antonio ha voluto mostrare a sé stesso che i due giovani che insieme facevano una bellissima coppia, potevano finalmente diventare "meno" di lui, perché lui ora vive mentre loro non più. Ad Antonio, possiamo attribuire sicuramente il vizio capitale dell’INVIDIA.
Tutti i casi sopra esposti hanno in comune il più terribile dei vizi capitali, perché tutti sono sfociati nell’IRA.
Sono meccanismi talmente assurdi che a molti di noi risulta difficile concepirne il senso, per quanto apparentemente banale esso sia: l’odio verso gli altri, capace di distruggere l’altrui vita e anche la propria, pur di trovare sfogo e in questo sfogo assoluto godimento.
Ci sono tanti modi di uccidere, molti avvengono tutti i giorni, sotto i nostri occhi, senza neanche fare troppo rumore, ma tutti hanno in comune la stessa assurda e inaccettabile matrice: la miseria umana mascherata da normalità apparente.
Se però certi individui appaiono ancora come persone perbene e solo dopo aver messo a segno efferati crimini tocca agli inquirenti riconoscerne il profilo gelido, sadico e socialmente pericoloso, allora la nostra società deve interrogarsi, perché non può continuare a reggersi sull’assunto che nessuno è colpevole solo perché la colpa è di molti.
Negli ultimi anni è in incremento, nelle scuole italiane, il riconoscimento di disturbi che in passato non erano ritenuti tali e questo giustifica la necessità di maggiori insegnanti di sostegno, ma non basta. Posto che l’attribuzione dei vizi capitali negli esempi fatti è solo indicativa, poiché molti di questi in realtà si incrociano, si sommano e si confondono anche con i restanti altri, la domanda da porsi ora è: quante possibilità ci sono che una persona qualunque, notando qualcosa di strano nel comportamento di un’altra, sia presa sul serio da propri conoscenti, insegnanti, assistenti sociali, autorità giudiziaria, insomma da tutto quel sistema che dovrebbe pensare e agire all’unisono in casi di questo genere al fine di prevenirli, supportare chi chiede ascolto e garantire equilibrio nella nostra società?
La mia risposta, stante il contesto disorganizzato, poco specializzato, culturalmente retrogrado, quand’anche non sia (come spesso lo è) corrotto e fazioso, in cui viviamo (in particolare in terra salentina), è zero, perché zero sono soprattutto gli strumenti culturali oggi alla portata di tutti perché questo sia possibile.
Il crimine di Antonio De Marco ora, non può essere derubricato a materiale per libri o film dell’orrore, perché l’orrore più grande è vivere in una società che non vede, non sa vedere e non vuole vedere.
Ignoranza e mediocrità sono il terreno ideale per l'insediamento del maligno, ma la fede, da sola, non basta. Il tempo dell’inerzia sociale di fronte alle mostruosità che la nostra stessa società crea è finito e non c’è da perdere più neanche un istante per riformare tutto quello che va riformato, a partire dagli strumenti culturali in possesso delle famiglie e delle scuole, per proseguire con i mezzi di supporto degli organismi operanti nell’ambito socio-sanitario e per finire con i canali di interlocuzione e azione concreta degli oscuri, ridicoli e angoscianti anfratti della malagiustizia italiana.
In foto: “Sette Peccati Capitali”, Hieronymus Bosch, Olio su tavola, 1500. Madrid, Museo del Prado.